Le 4P del Marketing in Italia

4p del marketing italianeLe 4P del Marketing vennero teorizzate da Jerome McCarthy e riprese nei decenni successivi da una lista infinita di autori, facendo riferimento a:

  • Prodotto;
  • Prezzo;
  • Punto Vendita;
  • Promozione;

come elementi fondanti del marketing mix nella creazione di una strategia aziendale.

Posto che nel corso dei decenni sono diventati concetti nozionistici, accademici e lontani dalla realtà – e che possono essere consultati su qualunque testo base, compresa la trattazione che ne fa Wikipedia – permettimi di parlare delle 4P del marketing che io considero necessarie per ogni imprenditore o libero professionista in Italia.

Non ho velleità da accademico né di diventare enciclopedico, quindi in questo viaggio alla scoperta delle 4P del marketing in Italia, cercherò di spiegarmi nel modo più semplice e fruibile possibile, per svelarti ciò su cui è realmente fondamentale concentrarsi per avere successo in un mondo nel quale saper acquisire clienti è fondamentale.

Le 4 P del Marketing in Italia: 1P – Percezione.

Il primo punto sul quale è necessario lavorare, quando si parla di marketing in Italia, è la Percezione, cioè la consapevolezza che vi siano modi differenti da quelli tradizionali italiani per acquisire clienti.

Detto in maniera sintetica, per gli italiani che aprono a vario titolo una partita IVA, non esistono realmente modi di acquisire clienti, se non ciò che è stato loro tramandato da norme, usi e costumi popolari nel loro settore.

Il negoziante pensa che la condizione stessa di aprire la serranda e collocarsi su una zona di passaggio sia di per sé sufficiente per avere un business e attirare clienti.

Il piccolo imprenditore pensa che attirare clienti si faccia mettendo qualcuno, come negli anni ’90, a telefonare a freddo a liste prese dall’elenco del telefono o dalle Pagine Gialle, e mandando agenti in giro a bruciare gasolio e scarpe.

Il libero professionista, come notaio, avvocato, medico, commercialista ecc., pensa che la laurea con conseguente iscrizione all’eventuale albo e abilitazione professionale siano di per sé condizioni sufficienti per “avere diritto” al lavoro.

Tutti insieme, poi, sperano nel mitico “passaparola”, come se fossimo ancora negli anni ’60, quando il primo che apriva al paesiello un negozio di lavatrici aveva il vantaggio che tutti lo avrebbero saputo dopo poco, non appena le amiche della signora Maria avessero visto a casa sua questa nuova diavoleria elettronica.

L’imprenditore italiano non ha assolutamente percezione del fatto che ci sono competenze necessarie per mandare avanti la sua attività che esulano dal suo patrimonio intellettuale o dal semplice fatto di avere “venditori” o dalle sue mani d’oro delle quali “tutti vorranno parlare”.

Per non passare da provocatore, polemico o “opinionista”, permettimi di riportarti dei dati che possano mostrarti la realtà delle cose in maniera inequivocabile.

Ora ti vado a mostrare – in maniera non esaustiva ma significativa per il nostro discorso – quanto gli italiani abbiano la percezione che sia necessario darsi da fare per imparare metodi che portino all’acquisizione di nuovi clienti.

Sommando tutte insieme le parole chiave più rilevanti legate al fare più clienti, arriviamo a fatica a 400 ricerche mese sui motori di ricerca come Google.

Detto in maniera più semplice, in Italia vi sono circa cinque milioni di partite IVA. Tutte vincolate alla necessità di fare clienti per rimanere aperte.

Ogni anno in Italia aprono tra l’altro oltre 500.000 nuove attività secondo i dati Istat e questo ci porta alla terribile conclusione logica del discorso.

In Italia in media un possessore di p.iva su 10.000 si informa su come sia possibile acquisire clienti. Lo ripeto: 1 su 10.000.

Se volessimo essere maggiormente realistici, dovremmo anche pensare che, tra quelle ricerche, una parte siano da un lato di studenti, magari proprio di facoltà come economia e percorsi di marketing.

Altre sono ricerche svolte magari da congiunti, dipendenti, soci dell’azienda o del professionista, ma senza potere decisionale e che ovviamente condurranno a un nulla di fatto.

Quindi, secondo la mia personale stima a sensazione, delle persone che ne avrebbero bisogno, solo una su 20.000 in Italia ha la percezione che sia importante studiare marketing e quindi capire come acquisire nuovi clienti.

Facciamo un esempio sciocco, ma che rende l’idea. In Italia vi sono 20.000 pazienti malati di “impresa” che ogni giorno avrebbero bisogno di una flebo composta da un particolare medicinale per poter sopravvivere, che si chiama “acquisire clienti”.

Non prendere questo medicinale porta a patologia e a morte certa in poco tempo.

Ora, di queste 20.000 persone, solo una si reca ogni giorno in ospedale come dovrebbe fare per la sua medicina.

Il risultato è che, in realtà, il tasso di mortalità delle p.IVA in Italia è ancora molto basso rispetto alla cattiva gestione delle proprie necessità vitali.

Questo vuol dire che l’economia in realtà “tira ancora da sola” e che spesso la concorrenza è poca e male organizzata.

Lo so che è il contrario di ciò che alla gente piace pensare, ma questi sono i dati.

Quante di quelle 390 imprese che falliscono al giorno in Italia si sarebbero potute salvare con una percezione più corretta della realtà quando parliamo di acquisizione clienti?

Analizziamo in maniera significativa cosa succede dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti.

Al netto del fatto che negli Stati Uniti ci sia cinque volte la popolazione italiana, il confronto in termini culturali è comunque lampante, devastante e impietoso, e la quantità di ricerche relativa alla lead generation è enormemente più elevata.

Senza nemmeno considerare tutta la enorme fetta di popolazione ispanica – e che quindi cerca in spagnolo anche su Google US – appare chiaro come gli Yankee ci surclassino non a percentuali, ma per decine di volte in termini di percezione sull’importanza di acquisire clienti.

Detto in termini più semplici, io non sono un filo-statunitense, pur dovendo riconoscere loro meriti fondamentali nelle materie delle quali mi occupo, che sono marketing e vendita.

Ciò detto, sarebbe sciocco non notare l’ovvio, cioè che, se per uno statunitense è “la norma” cercare informazioni su come creare e condurre il marketing per la propria azienda, per gli italiani è una materia completamente irrilevante.

È possibile che, oltre il lamento (che sposo e condivido in prima linea sia chiaro) contro il malgoverno, l’eccessiva tassazione, i problemi burocratici ecc. il fatto che:

  • gli USA siano la prima economia del mondo e siano contemporaneamente i maggiori “appassionati” di “come fare nuovi clienti”;
  • gli Italiani siano o abbiano la percezione di essere in crisi, MA non abbiano assolutamente la percezione che sia necessario trovare modi per fare nuovi clienti;

siano fatti in qualche modo collegati?

Io dico di sì.

Le 4 P del Marketing in Italia: 2P – Pudore.

La seconda P del marketing italiano è riassumibile nella parola “Pudore”, nel senso di “vergogna” e di “inopportuno”.

Qui entriamo nel campo della psicologia italiana avversa al marketing e alla vergogna legata alla povertà che deriva da un dopoguerra che è ancora troppo vicino alla nostra cultura.

Se prendi la generazione dei nostri nonni (e bisnonni per alcuni), cioè coloro che la guerra l’hanno vissuta e soprattutto, hanno vissuto il dopoguerra di macerie e miseria, ti accorgerai che nella maggioranza di loro vivono modi di pensare che si sono generati in quel particolare contesto culturale.

Uno dei modi di dire più popolari tra le persone anziane di quell’epoca è proprio: “Io compro, non vendo”.

Frase da intendersi come: “Non ho bisogno di vendere le mie cose per sopravvivere, siamo una famiglia onorata che campa onestamente e sa badare a sé stessa”.

Da qui l’italiano medio porta ancora, come abbiamo dimostrato sopra al punto numero uno, una genetica avversione al pubblicizzare sé stesso e la sua “mercanzia”, come se fosse “mala creanza”.

Laddove in USA e in altri paesi del mondo con una sensibilità commerciale più sviluppata, il fare marketing è naturalmente al centro di tutto, per l’italiano è motivo di “vergogna”.

Questo si ripercuote ancora con il fatto assurdo e tutto italiano che, per alcune categorie e ordini, il “farsi pubblicità” sia fortemente osteggiato, se non proprio vietato per legge italiana o interna all’ordine.

Ci sono categorie in Italia che odiano letteralmente il fatto che i loro partecipanti (non i loro oppositori!) possano avere successo, e faranno di tutto per impedirglielo.

Un po’ come i sindacati che fanno di tutto affinché i dipendenti soffrano o perdano il lavoro, inneggiando alla “lotta di classe”, ma questa è una storia che dovremo narrare un’altra volta…

Quando riesci a superare legalmente le barriere che ti vengono poste da professionista per promuoverti, allora il “branco” ti salta addosso.

Cosola

Ovviamente questo fenomeno non si limita ai liberi professionisti, ma si estende in generale a ogni possessore di p.IVA, perché la cultura italiana è geneticamente contraria al business e al successo.

“Perché la cultura del business è una cultura della crescita. Tu non apri una rosticceria per avere una rosticceria e sbarcare il lunario. Tu apri una rosticceria per fare TUTTO IL SUCCESSO CHE PUOI.

Questa parte, “tutto il successo che puoi”, manca all’Italia. Paese dove, se vinci 7 a 1, ti dicono che “dovevi fermarti prima”.

Non puoi, cioè, avere tutto il successo che puoi. Nessun ristorante apre il secondo punto se non ha un figlio da sistemare, nessuno apre il terzo se non ha un altro figlio, o un parente, da sistemare.

Il negozio è un lavoro fisso, tutto qui.

È la struttura del commercio italiano: se un negozio fa prezzi migliori di altri, succedono diverse cose.

Prima gli altri si lamentano col suo “rappresentante”, quello che gli vende le cose che poi rivende.

Il rappresentante va dal negoziante – tipicamente questo succede coi bar e i rappresentanti di caffè – e dice che, in zona, tutti fanno un altro prezzo, e che lo hanno minacciato di cambiare marca se non gli parla.

E siccome lui è un amico, perché tutti sono amici in Italia, allora è un consiglio che è meglio accettare. Poi parliamo dello sconticino, abbi pazienza.

Se il nostro commerciante si ostina a fare prezzi migliori, allora entrano in campo le amicizie, e arrivano “i controlli”, le petizioni dei vicini contro i locali notturni (di cui i vicini non sanno nulla), le lettere ai giornali sul degrado, e via dicendo.

Poi si passa gradualmente alle maniere pesanti, nelle birrerie andranno gli ultrà di calcio a ubriacarsi e far casino, pagati lautamente dal bar dove andavano prima, oppure qualche spaccino dimenticherà una dose nei bagni e ops, arriva il poliziotto subito dopo, per i ristoranti può succedere che si affittino grossi camion e li si parcheggi di fronte al ristorante per non farlo vedere dalla strada, che l’intera zona venga sporcata con scritte e vernici, i cassonetti vengano incendiati, l’arredo urbano devastato, per farla sembrare un ghetto di Harlem, e così via.

Perché? Perché non esiste una cultura del business, o del successo, dove fai tutto quello che puoi per avere il massimo successo.

Il negoziante che apre deve anzi MINIMIZZARE la propria “minaccia” verso gli esistenti.

Deve tenere un basso profilo, deve allinearsi ai prezzi di tutti gli altri, non deve dare molto fastidio.

Se ci fai caso, le bazze di cibo ottimo a prezzi bassi le trovate solo fuori città, perché è un patto tacito che la scomodità compensi i vantaggi.

Ma “la zona” è una torta che tutti devono dividere, senza infastidirsi reciprocamente.

Quando dico che non esiste una cultura del business e del successo, intendo:

  • il business in Italia è concepito come qualcosa di PICCOLO, che non causa fastidi ai concorrenti, che divide la torta equamente in un “vivi e lascia vivere”. Il successo è vivere bene NEL PICCOLO. Cioè, il successo è rinunciare al successo;
  • il business in Italia è concepito come qualcosa di PERICOLOSO, da contenere pretendendo che si “chieda il permesso”. Non è un diritto, non è una libertà, ma una concessione. Da doversi meritare, andando d’accordo con tutti;
  • il successo in Italia è sospetto. Chi ha successo deve nascondersi. E comunque non devi avere più successo del minimo strettamente necessario a vivere, te e la tua famiglia. È ingiustificabile il negozio che cresce senza bisogno di farlo;
  • l’intenzione di fare soldi in Italia è sospetta. Avidità, lussuria, peccato! Vade retro, Satana! Il negozio si apre per portare a casa il pane, mai fare di più. Che cavolo credete di essere? Steve Jobs diceva “stay hungry” per dire di morire di fame ogni giorno, che cavolo avete capito?

Tutte le parole del business in Italia sono associate all’abiezione morale.
Se diciamo “business” è perché “affari” ha una connotazione negativa, quanto “affarista”.

Vuoi fare un sacco di soldi? Vivi per i soldi, sei avido, sei senza cuore, sei un uomo senza morale, senza scrupoli. Un “affarista”, parola che per un qualche motivo in Italia assume connotati quasi criminali.”

Quello che hai appena letto è l’estratto di un blog che il proprietario ha deciso di cancellare dal web e che non citerò per rispetto nei suoi confronti, ma che descrive perfettamente l’approccio mentale dell’italiano al marketing e quindi al business.

L’italiano non cerca metodi per acquisire nuovi clienti perché pensa che sia “maleducazione” fare marketing. Per l’italiano la p.IVA si apre in modo antagonistico e non propositivo.

Detto in modo semplice, si apre la p.IVA per mettersi in proprio e non dover dipendere da altri o peggio lavorare per altri. Ma non si apre per avere veramente tutto il successo possibile.

Per questo noi ci limitiamo ad aprire la rosticceria sotto casa e gli americani fanno McDonald’s. Perché la cultura del business è legata al marketing. E il marketing è la cultura del successo. Non c’è altro modo.

Noi invece viviamo in una cultura del business di stampo socialista, dove bisogna “lavorare il giusto senza esagerare, lavorare tutti senza pestarsi i piedi”.

Per l’italiano, considerando che il 94% delle imprese italiane sono micro imprese sotto i 5 dipendenti e sotto i 2 milioni di fatturato, fare impresa non significa realmente “fare impresa”.

Significa semplicemente “comprarsi il proprio posto di lavoro” per non dover lavorare per altri. Tutto lì.

Spartirsi la torta senza pestarsi i piedi è la filosofia italiana. Non “generare nuova ricchezza”.

Siamo un popolo di dipendenti nell’animo costretti alla p.IVA perché non ci sopportiamo l’un l’altro, e invece che costruire aziende, polverizziamo sul territorio le competenze in un nugolo di micro imprese che poi, però, non hanno le risorse per promuoversi.

Anche in Europa stracciamo tutti per numero di micro e piccole imprese sul territorio, che se da un lato può essere una ricchezza, dall’altro denota uno stato di debolezza dell’economia italiana, perché una micro impresa ha pochi margini per fare marketing e quindi dovrebbe essere ancora più preparata e competente rispetto ai concorrenti più grandi.

Cosa che ovviamente in Italia non accade, perché nessuno si interessa di acquisire nuovi clienti e come farlo.

Fare marketing in Italia, quindi, è visto come qualcosa di sconveniente, di eccessivo, di megalomane, di attività “che rompe i patti”.

Se fai marketing in Italia, stai cercando di avere più di quello che ti spetta e quindi di togliere il pane di bocca ai figli dei tuoi vicini. È qualcosa di scorretto, che non si deve fare.

Le 4 P del Marketing in Italia: 3P – Proattività.

BilderbergSe acquisire clienti in Italia è visto come rottura del “patto sociale” per il quale bisogna spartirsi la torta senza danneggiare gli altri, è normale che nasca la convinzione che il controllo del business non dipenda da noi – dato che il nostro dovere di aprire la serranda lo abbiamo fatto – ma da “altri”.

“Altri” significa che l’italiano medio possessore di p.IVA spende ZERO tempo e risorse per capire come produrre proattivamente più clienti, mentre spende tantissimo tempo a parlare di come entità astratte quali “lo Stato” o “il Governo” o “i Poteri Forti” o “l’Europa” o “le banche” che dovrebbero “fare qualcosa per far ripartire l’economia”.

La mentalità italiana è meravigliosa, perché in moltissimi casi non la cambi nemmeno con le bombe a mano.

Gli italiani sono dispostissimi a passare un sacco di tempo a parlare di come il loro negozio, il loro ristorante, il loro studio, la loro impresa vada male per colpa del Bilderberg, della Commissione Trilaterale, del “signoraggio bancario”, della massoneria e delle scie chimiche.

Ma figurati se li vedi spendere mezz’ora a leggere, studiare, capire, formarsi e investire realmente – per la propria azienda e per il bene loro e dei loro cari – sull’unica cosa che realmente conta: acquisire nuovi clienti.

Se provi a fare una comparazione tra le ricerche degli italiani su “Reddito di cittadinanza” e “Acquisire clienti”, ti rendi conto di come l’interesse sia sbilanciato verso il primo argomento.

Ora ti spiego un segreto. Stai attento, perché lo dirò molto piano e poi cancellerò questo post perché non vorrei mai che i grigi della quinta dimensione mi sentissero:

Per combattere il Bilderberg, la massoneria, le banche cattive e il nuovo ordine mondiale, intanto che ci pensa Peppe, Matteo o chi ti pare, c’è solo un’unica cosa più potente di tutte.

Più potente di “votare”, più potente del “popolo”, più forte della “democrazia”, più invincibile di Nembo Kid.

Si chiama “Marketing”.

Ogni secondo che sottrai a pensare a Peppe, alle scie chimiche, a Putin che viene a salvarci e ai complotti dei rettiliani e lo dedichi a capire come attrarre più clienti per te e per la tua azienda, si traduce per te in possibilità di ricchezza e prosperità.

Se ricchezza come parola ti fa schifo perché sei catto-comunista e non calvinista, mi va bene anche “per la tua stabilità e sicurezza economica”.

Io scherzo, chiaramente, ma sono anche serio. Fammi spiegare.

Posto che io possa anche essere d’accordo o semplicemente credere al fatto che “il Governo” dovrebbe fare “qualcosa”, che ci sia chi complotta per tenerci tutti poveri nella terra cava, nelle riunioni del Bilderberg e del NWO, questo non cambia la situazione.

Facciamo anche finta che tutte queste cose siano vere. Va bene. Questo non cambia che il povero diavolo qui sei tu e rimani tu, e che condividere link spazzatura su Facebook o sfilare in piazza con Peppe, a breve termine non cambierà la tua situazione oggi.

Quindi, mentre puoi certamente continuare a informarti su ciò che ti pare, a sostenere movimenti politici o partiti che più ti aggradano ecc., dovresti anche ritrovare una centralità della responsabilità di come stanno andando le cose dalle tue parti.

Il business è uno sport equo, per quanto possa non sembrare. È a volte sporco, a tratti brutale, a volte così duro che ti può venire voglia di starne fuori, ma è equo.

Nel business guadagni per quanto vali. 

Sembra una frase forte, ma non lo è. Non sto parlando, infatti, di valore come persona o in quanto bravo cittadino pieno di valori sani.

Sto parlando di “valore” inteso come capacità di fare marketing. Poi spero che tu usi quella capacità di fare marketing in modo etico, per fare del bene e per dare grande valore ai tuoi clienti.

Spero che tu abbia preso una decisione profonda di lavorare sempre e solo nell’interesse dei tuoi clienti e solo nel loro migliore interesse.

Ciò detto, se non cominci a capire che devi diventare molto bravo ad acquisire clienti proprio perché non hai molti soldi, avrai sempre degli enormi problemi ad andare avanti.

Fare marketing è mettere in piazza che le cose vanno male

negozi localiSempre su questo punto legato alla proattività, in Italia ci ritroviamo con la mentalità per la quale il fare marketing è sconveniente perché comunica agli altri “che siamo in difficoltà”.

Non ridere e facci caso ascoltando le persone tra le righe.

Per l’italiano medio, artigiano, bottegaio, negoziante e piccolo imprenditore, farsi pubblicità è comunicare al mercato che abbiamo bisogno di clienti.

Che sarebbe lo scopo, appunto, se l’italiano non fosse pazzo, cioè prendesse questa cosa come un “mettere in piazza che le cose vanno male”.

Tornando al punto due, infatti, c’è da ricordare che per noi non bisogna desiderare più del necessario.

Non si deve avere tutto il successo possibile, ma solo accontentarsi di tenere aperto e stare abbastanza bene da pagare bollette, debiti e mantenere dignitosamente la famiglia.

Quindi, se fai marketing, le cose sono solo due:

  1. sei uno sporco avido che vuole più di quello che gli serve e gli spetta;
  2. sei disperato e le cose ti vanno male, quindi hai bisogno di farti pubblicità.

Per l’italiano medio, fare marketing è in molti casi l‘equivalente psicologico di chiedere la carità.

Se le cose non vanno come si vorrebbe, fare marketing per l’italiano è l’ultima risorsa o anzi proprio non esiste.

Si preferisce chiedere l’elemosina, creare piagnisteo, lamentarsi del governo, invocare l’aiuto di Putin, iscriversi al gruppo su Facebook: “Tutti insieme contro le scie chimiche!!1!”, piuttosto che fare marketing per la propria attività.

Partendo da questi assunti, cioè che:

  • “I clienti mi spettano di diritto” (tipo il reddito di cittadinanza insomma);
  • se non ho abbastanza clienti, non è colpa mia ma di (figura di fantasia a caso);
  • non posso fare marketing perché sarebbe come “umiliarmi” e “dare fastidio”;

risulta veramente difficile vedere un futuro imprenditoriale sano da parte di coloro che non cambieranno questa mentalità malata.

Le 4 P del Marketing in Italia: 4P – Pubblicità.

Superate le problematiche di ordine prevalentemente psicologico affrontate fino ad ora, ci troviamo adesso davanti a un problema che si trova ad affrontare il possessore di p.IVA, l’imprenditore, il negoziante o il libero professionista che invece VUOLE fare marketing.

Per tanti anni non sono riuscito a comprendere il concetto di marketing.

Guardando ciò che viene prodotto in Italia in questo settore, immagino che la maggioranza degli imprenditori siano nella stessa identica situazione nella quale mi trovavo io.

Questo marketing “non si capisce”, è una cosa strana, di solito si buttano solo via i soldi ed è qualcosa da fare “per fare il figo” solo quando hai molto denaro da buttare. Altrimenti niente.

Il marketing in Italia è sempre e solo stato percepito come “la pubblicità” o “réclame” che si fa in televisione, in radio, sui giornali e in generale, è qualcosa di riservato alle grandi aziende che hanno un sacco di soldi da poter spendere.

Peculiarità del modello produttivo italiano, però, è la forza delle micro, piccole e medie imprese.

In Paesi come la Germania o la Gran Bretagna, la maggior parte del fatturato è generato dalle grandi imprese. In Italia, invece, per il 69% è frutto delle realtà di micro, piccole e medie dimensioni (un’incidenza di 12 punti percentuali più elevata rispetto alla media europea e che non ha eguali in nessun altro Paese).

Il punto è che, in Italia come dicevamo già prima, il 94% delle imprese è costituito da micro imprese con meno di dieci addetti per un totale che arriva a circa 5.000.000 aziende.

Il 94% delle imprese italiane, quindi, non raggiunge i due milioni di euro di fatturato.

Con cifre così piccole a muovere i piccoli motori dell’economia italiana, il marketing è sempre stato visto come qualcosa di fumoso, di inutile, di inarrivabile o di “roba per darsi delle arie”.

Senza pensare ai grandi media, si pensi al lavoro delle agenzie pubblicitarie italiane.

Il loro scopo sulla piccola e micro impresa è sempre stato quello, oltre che di intermediare spazi pubblicitari, di vendere all’imprenditore italiano la “cartellonistica stradale”.

Questo è un procedimento stupido e dannoso per due motivi semplici.

Il primo è che un’agenzia pubblicitaria, facendosi da intermediaria di spazi, guadagna in funzione di quanto più fa spendere al cliente. Più il cliente acquista spazi, più alti sono i suoi compensi. C’è un enorme conflitto di interessi qui.

Secondariamente, per chi non poteva permettersi di andare in televisione o in radio, la strategia dei cartelloni stradali è sempre stata un ottimo surrogato.

In pratica, si tappezzava sapientemente il percorso in macchina che va da casa dell’imprenditore alla sua azienda con un sacco di cartellonistica e questo era tutto.

L’imprenditore passando si sentiva tronfio di “essere famoso in tutta la città” e questo gli bastava.

A parte questi episodi divertenti, che ogni insider del mondo delle agenzie di pubblicità conosce, il marketing è sempre stato argomento oscuro poiché nessuno è mai stato in grado di vendere qualcosa di chiaro e misurabile per gli imprenditori.

Detto in termini semplici, qualunque iniziativa venduta dalle agenzie pubblicitarie è sempre stata qualcosa di creativo e non misurabile.

In pratica, si facevano spendere all’imprenditore soldi su vari mezzi di comunicazione dei quali non venivano mai tracciati i risultati.

Questo perché:

  • i pubblicitari italiani non hanno idea di come si faccia;
  • l’advertising o pubblicità per grandi aziende nasce come qualcosa di non tracciabile.

L’imprenditore medio, che come abbiamo dimostrato non studia mai nemmeno le basi dell’acquisizione clienti, si fa imbambolare da un venditore di pubblicità, comincia a mettere soldi in queste iniziative tra il creativo e lo strampalato e alla fine del mese, vede uscire soldi, ma non rientrarne.

Quei pochi che sono rientrati non è possibile nemmeno sapere da quale iniziativa siano rientrati, perché nulla viene tracciato. Quindi, le campagne non sono in alcun modo monitorabili e perfezionabili.

Non c’è modo alcuno di:

  • scartare ciò che non sta funzionando;
  • tenere ciò che funziona;
  • testare varianti finché non si raggiunge un buon livello di investimento contro profitto.

L’imprenditore italiano si sente dire che:

“Perché le campagne funzionino ci vuole tempo, bisogna insistere”

in modo che non stacchi il respiratore ai soldini che l’agenzia prende su di lui.

Qualcuno ci casca, ma molti no e semplicemente interrompono il flusso di denaro in uscita.

Dopo essersi fatti fregare in questo modo da due, tre agenzie nella loro carriera, gli imprenditori si convincono che:

  • “il marketing fa schifo”;
  • non funziona;
  • non serve;
  • non si adatta a noi;
  • al nostro settore ecc.

In realtà, tutto ciò che provo a spiegare da anni è che un imprenditore è – o meglio deve essere – un esperto di marketing e vendite che sa leggere un bilancio e prende decisioni attraverso i numeri. Stop.

L’azienda è il marketing. Di prodotti eccellenti e di aziende con servizi e manufatti di altissima qualità è piena la storia dei fallimenti.

L’unica cosa che conta in un’azienda è la sua capacità di installarsi, rimanere e prosperare sul mercato.

E questa cosa:

  • non la si fa con i prodotti;
  • non la si fa con la qualità;
  • non la si fa con la tradizione di famiglia ecc.

La si fa con il marketing.

Ma capisco perfettamente come, dati i presupposti fumosissimi con i quali il marketing è sempre stato presentato in Italia e le nostre origini artigiane, il fatto che gli imprenditori siano refrattari al marketing stesso sia una cosa piuttosto normale.

Normale ma non sana, anzi pericolosissima, quindi è necessario porre rimedio a questa situazione nel minor tempo possibile.

Affrontiamo uno dei concetti base immediatamente, cioè quello della “creatività” associata al marketing.

Il marketing non deve essere creativo. Deve vendere.

Poi, se riesce a trasmettere con forza un messaggio di vendita e lo fa con un approccio in parte creativo, ben venga… ma non è necessario.

Questo è un concetto difficile da capire all’inizio, laddove per marketing si prendano a ispirazione le campagne pubblicitarie delle grandi aziende, costellate e farcite di spot privi di senso e 100% creativi.

Le campagne delle grandi aziende sono un mondo a parte che non ha nulla a che vedere con ciò che deve o dovrebbe fare una micro, piccola e media impresa italiana.

Le grandi multinazionali hanno budget allocati per il marketing che vengono affidati a grandi agenzie di grido.

Lo scopo di queste agenzie non è aumentare le vendite dell’azienda, quanto fare “bella figura”.

È un mondo paradossale a conoscerlo, ma le campagne vengono commissionate attraverso un incontro dove la mandante affida un brief (un’idea, un piano di lavoro) all’agenzia che ha vinto la gara o la competizione con i concorrenti.

Supponendo che in agenzia ci siano anche delle persone preparate, è impossibile che la campagna abbia un senso, perché se si vuole incassare la fattura, si deve compiacere l’azienda mandante e il briefing ricevuto.

Supponiamo che la Coca-Cola indica una gara dove il brief che viene dato è:

“Vogliamo una campagna con animali antropomorfi che sprigionino allegria e trasmettano la gioia del Natale”.

Quando non si è troppo fantasiosi si ricorre sempre a metafore sessuali e spesso sessiste perché si sa:

“La figa tira sempre”.

latte-coca-cola

Ma torniamo al nostro brief con gli animaletti… anche se sai che gli animali antropomorfi che sprigionano allegria non hanno nulla a che vedere con la possibilità di Coca-Cola di aumentare le vendite, se vuoi mangiare, ti “inventi qualcosa” e lo sottoponi alla mandante.

Tu che sei dell’agenzia A porti gli orsi che ballano, l’agenzia B porta i pinguini che suonano e l’agenzia C porta le foche che saltano. Tutti felici con la Coca-Cola in mano.

Tu vinci la gara e in televisione va il tuo spot con gli orsi che ballano.

Se ti sei impegnato molto, vinci anche un premio a Cannes come miglior spot dell’anno e chi può più dirti nulla?

Perché hai vinto? Perché il tuo spot è migliore e “funziona” meglio?

No.

Hai vinto perché il tuo spot è piaciuto di più a un tizio che decide e che di marketing non sa nulla.

Se ha studiato marketing in una prestigiosa università, è ancora peggio, ma su questo argomento ci torneremo un’altra volta.

Capisci la follia? Il marketing viene creato in funzione di desideri di persone non competenti sul marketing, realizzato da persone spesso ancora meno competenti sugli effetti del lavoro che verrà svolto, ma che guardano il tutto solo con un approccio creativo e necessità di incassare soldi.

Di base, non è molto diverso da quello che succede nella micro e piccola impresa italiana quando l’imprenditore, che vuole investire, lascia l’ultima parola sul lavoro alla nipote che è “laureata in marketing”.

Scontro di cervelli tra una che non capisce nulla e un’agenzia di creativi che, di marketing e vendite e di come si producano risultati, capisce ancora meno.

Poi certo, è “il marketing” che “non funziona”.

Come se il marketing fosse un’entità a sé che vive di vita propria e non una disciplina scientifica che va conosciuta e padroneggiata.

La maggior parte dell’advertising delle grandi multinazionali si riduce a uno sforzo creativo autoreferenziale che non ha nella maggioranza dei casi nessun impatto sulle vendite aziendali.

Spesso porta addirittura con sé una decrescita dei fatturati, perché lo sforzo ha prodotto qualcosa di creativo, che intrattiene, che emoziona ma che è contrario o incongruente a ciò che il brand dovrebbe o avrebbe dovuto comunicare.

In pratica, si spendono una barca di soldi perché c’è un budget da spendere. Questo budget non lo vince l’agenzia realmente più capace sulla base dei risultati che può produrre.

Lo vince, invece, l’agenzia che più compiace uno o più tizi dell’azienda mandante, che di marketing non sanno nulla (magari sono dei manager molto capaci in altri campi, ma non sono preparati sul marketing). E alla fine diventa una gara autoreferenziale a vincere contratti e a vincere premi facendosi tutti in agenzia dei grandi complimenti a vicenda per motivi completamente futili e scollegati dai risultati.

Quando vedo un’agenzia di pubblicitari che si vanta di aver vinto un premio, io metto mano alla pistola.

Perché si sta vantando di una cosa idiota. Questo premio, chi gliel’ha dato? Ma degli altri creativoni come loro, ovviamente… che hanno giudicato cosa? Come nell’arte, un giudizio soggettivo basato su cose come “il contenuto emozionale” e “la creatività e l’innovazione”. Ma sul serio facciamo?

O come quando qualche agenzia si vanta di lavorare con questa o quell’azienda.

Non vuol dire nulla.

Vuol dire solo che hai convinto un decisore di quell’azienda a comprare da te piuttosto che da un altro.

Dovresti, quindi vantarti di essere un bravo venditore, quello sì. E di questo ti faccio i miei complimenti.

Ma non certo che sia motivo di vanto o che aver convinto qualcuno a comprare da te abbia qualcosa a che vedere con i risultati che il tuo lavoro è in grado di portare.

Ma passiamo per un attimo al concetto di marketing e di creatività per spazzare via ogni dubbio.

Se pensi al marketing ai livelli più bassi, parliamo di volantini, di trafiletti sui giornali, magari di spot alla radio locale o un passaggio al cinema prima del film. Cosa dicono questi spot alla fine della fiera?

In sintesi il messaggio è:

  • esistiamo;
  • siamo qui;
  • facciamo questo;
  • venite a trovarci (quando vi pare).

Fine.

Questo perché in Italia il marketing – o meglio, la pubblicità – si pensa che abbia come scopo il fatto di comunicare al mondo che un’azienda esiste e cosa vende. Fine.

Come se nel mondo di oggi bastasse annunciare col megafono che si è presenti per vedere i clienti accorrere.

Ovviamente non è così, ma l’ovvio pare non essere molto di moda di questi tempi.

È chiaro allora che, se si spendono soldi su qualunque mezzo per comunicare “Esistiamo, facciamo questo e ci trovate qui”, i soldi in marketing siano inevitabilmente buttati. Sono il primo a sostenerlo.

Da dove nasce questa follia? Beh nasce dal fatto che in Italia il marketing è una disciplina ferma agli anni ’50. Carosello è ancora il top che l’Italia sia riuscita a produrre in termini di “marketing”.

Facciamo un minimo di storia spicciola. Negli anni ’50 e ’60, quelli della ricostruzione dalla guerra e del miracolo italiano, in Italia mancava praticamente tutto. Quindi, se in un paese eri il primo ad aprire l’azienda col negozio che faceva le sedie o i bicchieri, il “marketing” era che ti bastava semplicemente dirlo.

Certo che funzionava, non c’era nulla e quindi:

  • esistiamo;
  • siamo qui;
  • facciamo questo;
  • venite a trovarci;

era per definizione il marketing. Cosa serviva fare di più, quando chiunque aprisse era il primo e c’era “fame” di qualunque cosa?

Poi, con il passare dei decenni, le cose sono cambiate. Prima, ovviamente, ha cominciato ad arrivare la concorrenza. Tu avevi la tua aziendina che faceva viti e bulloni e poi comparivano altri come te che si mettevano a produrre la stessa roba. E se erano “furbi”, ti fregavano i clienti, dando loro prodotti come i tuoi e facendoli pagare meno.

Da lì in avanti, nasce la necessità di “differenziarsi” e di comunicare che non solo esistiamo, siamo qui e vendiamo questo, ma anche di rispondere alla domanda:

“Perché dovresti comprare da me, invece che da qualunque altro concorrente, invece che addirittura non comprare nulla e soprattutto, perché dovresti farlo proprio ora e non rimandare”.

Il piccolo imprenditore italiano, il negoziante, l’esercente, il libero professionista ecc. non hanno mai avuto l’opportunità di studiare in questa direzione e nemmeno di trovare fornitori che vadano a loro tutela in questa direzione.

Che siano cartelloni, volantini, spot per radio, pagine di giornale e qualunque mezzo tradizionale usato dalle agenzie per vendere pubblicità agli imprenditori, il messaggio comunicato è sempre stato solo:

  • esistiamo, siamo qui e vendiamo questo;
  • stiamo facendo una liquidazione/promozione;
  • commuoviti e ridi con i nostri orsi che ballano.

Non se ne esce.

Per questo, da pazzo sognatore quale sono, ho deciso di cercare di insegnare a più persone possibile l’importanza di educarsi ad acquisire più clienti e a vendere di più.

Nonostante sia un mercato che riferito all’Italia non esiste. Nonostante la maggioranza degli italiani non ne voglia sentir parlare. Nonostante alcuni combattono affinché si continui a non parlarne nella maniera corretta.

Ma come diceva Steve Jobs (che non cito mai perché lo citano tutti sempre a sproposito, ma stavolta passamelo):

“Sono i pazzi che credono di poter cambiare il mondo, che alla fine lo cambiano davvero”.

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  1. Norman
    • Frank Merenda
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  2. Roberto Fantuzi
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